NOVELS (testi in : LE ATTESE IMPERFETTE, Ed. QuduLibri, 2018)

 ITALIAN VERSION

QUALCUNO AVEVA CREDUTO

 Qualcuno aveva creduto seriamente che fosse possibile. Così si misero in fila, montarono sui seggiolini, la macchina prese la rincorsa e loro cominciarono a scalciare in avanti, per proiettarsi verso il cielo e levarsi finalmente di dosso questa terra e il suo tremendo peso di gravità. Ma fin dai primi salti, mentre di rimbalzo tornavano indietro per essere ricaricati come delle molle, si resero conto che a ogni movimento, a ogni scatto, un pezzo di  cielo si staccava. Pezzi di nuvole e orizzonti si sgretolavano come brandelli di intonaco in caduta libera. E a un certo punto non tornarono più indietro. Rimasero lì, in quella specie di balzo al quale avevano creduto. Fermi come l’immagine di un circo sul muro.

IL SERMONE DEL FIORE

 Lui si fermò da fioraio e, nonostante avesse solo pochi soldi in tasca, le comprò un mazzo di rose rosse, bellissime. Lei lo ringraziò sorridendo, ma poi gettò quasi tutto il mazzo in un cestino, e ne tenne solo una. Gliela porse e gli raccontò la storia del Sermone del Fiore di Buddha :

“Un giorno Buddha era atteso da una grande folla riunita per ascoltare uno dei suoi meravigliosi discorsi. Giunse finalmente. Si collocò davanti alla folla impaziente. Tutti questi uomini, tutte quelle donne, la moltitudine insomma, era come un alito ansioso che saliva a lui. Era un silenzio colmo di respiri, dove respiravano l’attesa anche gli animali e gli alberi. Buddha pronunciò allora il suo discorso : lo disse senza aprire la bocca. Tese verso la folla un fiore. Nient’altro. Alzò il fiore e non parlò. E non solamente i più devoti discepoli (tra i quali Mahakassyapa, che poi il fiore ebbe in dono) ma tutte le donne, tutti gli uomini, tutti gli animali, tutte le piante, tutti compresero il discorso del Fiore; ogni essere vivente lo capì a modo suo, come la sua mente e il suo cuore glielo suggerivano. Forse il discorso o Sermone del Fiore riassume l’essenza della vita di Buddha e del Buddismo.”

Anche lui sorrise. Si tenne la rosa. La mise in un vaso di vetro sul tavolo della cucina. Passò il tempo e la rosa non sfioriva mai. Intanto però lei era sparita. Lui aspettò, aspettò a lungo, finchè un giorno prese la rosa (che era sempre rossissima), aprì la finestra e la gettò di sotto. E fece tutto questo sempre sorridendo, certo di avere finalmente capito in pieno il Sermone del Fiore.

LA VERITA’ VI PREGO SULL’AMORE

Sono passati più di trent’anni. Visto che la pausa pranzo era breve, e non avevo voglia di parlare con nessuno, avevo preso l’abitudine di andare al parco.

Li’ c’era una panchina, vechissima, tutta di un verde scrostato. Era anche traballante.

Mi piaceva sedermi lì e mangiare in pace il mio panino lì. Un giorno mi accorsi che sullo schienale, tra le centinaia di cuoricini trafitti e iniziali e disegnini di vario tipo quasi illeggibili, c’era una scritta più lunga. Diceva : “Ho finito di leggere le poesie di W.H. Auden !!! Fantastico !!! Andate subito a comprarvele.. Non sapete cosa vi state perdendo!! Marco, ti Amo!!!”

La sera stessa andai a comprare il libro, che ho letto, riletto all’infinito, e conservato sempre con me.

E, per il tempo che sono rimasto in quella città, a fare quel lavoro, ho continuato a passare le pause pranzo sulla panchina, per sentirmi in compagnia della sconosciuta che amava questo Marco.

Qualche anno più tardi  mi capitò, percorrendo una vita completamente diversa, di passare da quelle parti e mi venne voglia di rivedere la panchina.

C’era ancora. Ma l’avevano ristrutturata, rivestita di una vernice bianco opaco plastificata. Riavvitata con cura, con nuovi elementi di ferro, e inchiodata al suolo.

Ovviamente non c’era più nessuna scritta, nessuna dichiarazione d’amore, nessuna verità da inseguire.

Mi colse un presentimento.

Quando tornai a casa cominciai a cercare affannosamente la mia copia di quel libro. E’ da allora che la cerco. Non l’ho più trovata

DOVE E’ CASA TUA ?

Il giorno del trasloco il cielo era grigio, faceva freddo e cadeva un fitto nevischio. Gli alberi intorno alla casa che lasciavamo erano ricoperti da una sottile polvere di ghiaccio. Tutto il giardino risplendeva, ma come di un bianco argento che si spegneva solo per rintanarsi in angoli lontani, oltre la sagoma della casa.

Poi il camion finì di caricare tutto e partimmo. Così cominciarono a passare gli anni, e ne passarono tanti.

Poi, non molto tempo fa, mi capitò di scambiare qualche parola con una anziana signora che sedeva accanto a me in treno e  leggeva “Lo Straniero” di Camus. Mi disse che non riconosceva il mio accento “Di dove è ?- mi chiese- Dov’è casa sua?” - Risposi sorridendo che avevo cambiato tante case, tante città, ma che in fondo dove fosse la mia vera casa non lo sapevo. O forse sì. Ma lì – aggiunsi – era tutto freddo, ghiacciato, bianco, un po’ cattivo… - “Quanti anni aveva quando se ne andò da lì?” - Dissi : “diciotto”.-  La signora ci pensò un po’ su, mi guardò bene negli occhi, poi disse : “No, amico mio. Se quella è veramente LA CASA, la SUA casa, provi a tornarci adesso, e lo capirà subito.” “E da cosa lo capirò ?” - “Dai colori. Intorno alla nostra vera casa, quando è arrivata l’ora giusta per ri-incontrarci, c’è sempre il segno della primavera. Vedrà!”

Così tornai, che era ancora inverno. Camminai a lungo per il giardino. Mi ci volle un po’ per trovarla ma alla fine la vidi. Era piccola, coloratissima, e, dietro, la casa si vedeva perfettamente.


LA DONNA PIU’ FELICE DEL MONDO

 Quando il telefono cominciò a squillare lei si bloccò, di colpo, ferma,dritta e rigida, lì nel punto della piazza dove, già da due ore, girava e girava avanti e indietro senza fine, come se dovesse scavare un solco nell’asfalto, e i suoi lineamenti – divorati dall’ansia e dalla paura – si distesero in un grande sorriso. Un sorriso che le attraversava tutto il corpo, che la circondava, la portava via da se stessa, per stare ancora più vicina a se stessa. Serrò le braccia intorno al proprio corpo,  per stringersi in una specie di auto-abbraccio. Gli squilli si ripetevano, esplodevano quasi, la riempivano in tutto il corpo, le risuonavano dentro, come può fare il passaggio di un aeroplano a bassa quota, che con il rumore travolge le cose e ferma il movimento del mondo. Ma lei era felice, si stringeva forte. Tutta la sua vita adesso era in quell’abbraccio che si concedeva. Era felice. Era la donna più felice del mondo. Tanto felice che non le venne neanche in mente di rispondere al telefono, che continuò a squillare a lungo. Poi smise.

L’UOMO RELIGIOSO

 Incontrava la ragazza ogni giorno, verso le 6. Lui usciva dall’ufficio e come attraversava la piazza, la vedeva sbucare dal portone della chiesa e prendere sveltissima per il portico davanti. Poi spariva, in pochi secondi, ma da quel poco che riusciva a notare, gli sembrava bellissima. Così decise di conoscerla e fece in modo di uscire un po’ prima per trovarsela di fronte. Ma quel giorno la ragazza non appariva. A un certo punto, vinto dalla curiosità, entrò nella chiesa e, nonostante le dimensioni  del luogo, la scorse subito, sulla destra, inginocchiata ad un confessionale. Aspettò. Intanto guardava l’interno del posto, immenso, avvolto in un’oscurità che dal suolo, risalendo a mezz’aria per poi crescere seguendo l’altezza vertiginosa delle navate, portava al soffitto code di tinta nera progressivamente più cupe, più opprimenti, più fonde e impenetrabili allo sguardo. Sentì il bisogno di allentarsi il nodo della cravatta. Stava sudando. L’aria gli parve irrespirabile. La confessione durava ancora. “Dura un’eternità…” pensò..Non si vedeva più niente. Tutto pesante, tutto scuro. L’unica luce veniva da lumini fiochi accesi sotto un enorme quadro del quale non riusciva però a distinguere nulla.  Gli vennero in mente queste parole che aveva letto tanto tempo prima:  “Durante quel Tempo alcuni felici discepoli fra gli ascoltatori videro il cielo riempirsi di dei che ascoltavano le parole del Maestro. Molti altri ebbero l’intuizione che il Cielo e la Terra erano riempiti di Dei e di uomini che ascoltavano la Dottrina. Alla vista di tutti la tenda di un arcobaleno apparve in un limpido cielo. Strumenti di sacrificio, parasoli e stendardi innumerevoli  in nuvole di cinque colori colmavano il cielo. Cadeva una pioggia di cinque colori”.

La ragazza era ancora lì, in ginocchio, a confessarsi. Decise di uscire. “Basta” pensò, anche. Di fronte alla chiesa, sotto il portico illuminatissimo c’era una folla di gente molto colorata che camminava e parlava e faceva chiasso. “Questo è il NULLA” – pensò – “ed è la VITA, la mia, tutta mia, e non è pesante, nera. Non schiaccia, non chiude gli occhi, guarda i colori. Perché non c’è nessun peccato.” Non si era mai sentito così religioso. Così vicino a Dio.

IL GESTO DEL DIFENSORE

 Alle cinque andò subito a casa, che quel giorno era stato una tortura.  Ma in casa si mise a camminare, dalla sala ala cucina, per fermarsi solo qualche istante alla finestra. Percorreva il corridoio avanti e indietro. Si accorse che non aveva neanche acceso le luci, e la tinta grigiastra che avvolgeva la casa gli fece venire in mente certi pomeriggi dell’ infanzia quando finiva di giocare e doveva fare i compiti. Camminando avanti e indietro fu tentato due o tre volte di rimettersi il cappotto. Guardava anche il telefono, di continuo, se per caso non lampeggiasse.  Alle fine senti male alle gambe e si buttò sulla poltrona della sala.  Accese la tv. Davano una partita di calcio. Era la partita della quale i colleghi avevano parlato tutto il giorno, scambiandosi commenti eccitati e pronostici, bisbigliando, in effetti, per non offenderlo con la loro allegria. Si mise a guardare, pensando a quanto tempo fosse passato dall’ ultima volta che aveva visto una partita. "Innaturale"  che ci fosse il colore, gli venne da pensare, come se il tempo si fosse fermato anche in quell'oggetto, e gli sembrasse strano non vedere tutto in bianco e nero, come per lui oggi era tutto il resto. Guardava cercando di capire chi giocava. La prevalenza della squadra in maglia gialla era evidente. In pochi minuti era andata 3-4 volte vicina al goal e solo le parate strepitose del portiere avversario glielo avevano impedito. Si accorse di guardare con attenzione quel portiere.  Era alto e magro, in tenuta nera, con un cappellino a visiera.  Aveva la faccia triste. A ogni parata che faceva, balzando da una parte all'altra della della porta,  si rialzava con l’ espressione un po’ più triste. Poi arrivò il tiro imprendibile,  da lontano. Il portiere cadde giù e rimase a terra per qualche secondo, con la testa fra le mani, senza guardare il pallone in rete. Quando si rialzò andò lentamente verso il palo alla sua destra, allargando le braccia. Quasi a chiedere scusa a se stesso.

A LETTER TO MYSELF

 Ho pensato spesso che ogni cosa è “impacchettata dentro di me”, come a dire : in qualsiasi momento vado, torno, arrivo, mi muovo, definisco, congelo, arretro, avanzo, stabilisco, magari torno da dove sono venuto e alla fine apro tutti questi pacchetti per vedere cosa c’è dentr. Per vedere chi sono, adesso.O forse mi piace illudermi, perché ricordo un giorno di Natale di tanto tempo fa. Ero a New York, e scrissi una lettera a me stesso (chissà perché…)  sulla carta intestata della Chemical Bank, e poi chiusi la busta e ci scrissi sopra : “da non aprire, per nessun motivo”. E infatti sta ancora lì, e non l’ho mai più aperta. Non mi ricordo niente di quello che scrissi. Ma va bene così : è impacchettata dentro di me. E’ una specie di crocevia, dove – se mai la aprissi – potrei trovarmi davanti a un altro me stesso. E questo perché la nostra libertà (l’unica, a pensarci bene) sta proprio nella possibilità che dobbiamo sentire praticabile per tutta la vita, di essere “qualcun altro” perché, in fondo, non esiste certezza, nemmeno di sapere chi siamo veramente. A meno di non aprire quella lettera a noi stessi che tutti – in un modo o nell’altro – abbiamo scritto, chissà quando, per poi nasconderla, chissà dove.

LA MUSICA NELLA CASA VUOTA

 Qualche giorno dopo  vennero a svuotare la casa.

Quello in tuta blu – che guidava il camion e doveva essere il capo – prendeva la roba dal marciapiede, dal punto dove gli altri la appoggiavano, e la disponeva sul camion. Il più forte degli uomini era il pelato, un tipo alto, enorme, che indossava un grembiule  grigio e sudava a goccioloni e non parlava mai. O meglio : parlava con rapidi sguardi senza sorriso e con i gesti che ripeteva continuamente per levarsi il sudore dalla fronte. Da solo portò giù il frigo, il tavolo della sala e il divano. I due ragazzi invece si passavano le poltrone e i cassetti ridacchiando. Era da poco che facevano quel lavoro. Cose estive, da studenti. Solo quando svuotarono la camera dei bimbi rimasero in silenzio per un po’, poi pensarono che loro non c’entravano e ricominciarono a parlare. A mezzogiorno mangiarono un panino con la mortadella appoggiati al box di plastica rossa che avevano portato giù così com’era, pieno di giochi e di pupazzi. Il ragazzo più grasso aprì una lattina di birra schizzando tutto sui giocattoli e il capo gli gridò : “Stai attento,  idiota!! “. Pensava che fosse una questione di rispetto, più che altro. Anche il pelato scosse la testa e un rivolo di sudore gli corse giù sul collo, fino al grembiule. Ormai il camion era pieno. Si sedettero tutti dentro, con un certo sollievo, ma il capo disse che era meglio fare un ultimo controllo e mandò su il pelato.

Mentre saliva le scale il pelato sentì dei rumori, anzi dei suoni, provenire dalla casa vuota. Era una musichetta allegra, molto ritmata. Si asciugò il sudore con la manica e cominciò a girare per le stanze, seguendo la canzone che echeggiava dappertutto. Alla fine la trovò, per terra, in un angolo della sala da pranzo dietro la colonna: una radiolina nera accesa da chissà chi e dimenticata. Il pelato fece d’istinto un passo avanti, per andare a spegnerla, poi si fermò.

Si passò più volte la manica sulla faccia umida, guardando fisso il pavimento, poi si voltò e uscì. Ma prima di andarsene chiuse la porta della stanza.

IL MURO

 Tutto è un’apparenza. Lui e lei siedono in due stanze diverse, a migliaia di chilometri di distanza e il muro che li divide, fatto di tempo e di lontananza e di indifferenza, sono stati proprio loro a costruirlo. Poi una sera, senza nessuna ragione particolare, ciascuno dei due comincia a scrivere una lettera all’altro che, naturalmente, ne è inconsapevole. Ma mentre scrivono hanno tutti e due come l’impressione che dalla’altra parte del muro ci sia qualcuno che conoscono, e sembra a tutti e due di sentire come un profumo antico ma familiare. Così, a distanza di migliaia di chilometri, continuano a scrivere con la sensazione che l’altro possa rispondere in qualsiasi momento. E anche che il muro si stia lentamente ma sensibilmente assottigliando.

LA DONNA CHE ATTENDEVA L’AMORE

 La donna che attendeva l’amore non riusciva più a parlare con nessuno. E cominciò a parlare con se stessa. Quando ebbe ottenuto tutte le risposte che cercava, finalmente si alzò dal tavolo. Tutto intorno risplendeva il sole. Lei era diventata un’ombra.


NELLA STANZA ACCANTO

 Mi sono sempre domandata se nella stanza accanto abitassero il passato, il presente o il futuro. Così, alla fine, decisi di aprire la porta e andare a vedere. Ma il dubbio di trovare prima di cercare mi fermò lì, sulla soglia, in un fermo-immagine che prolungherà la mia attesa per sempre. La verità era nella mia stanza e non l’avevo mai vista.


TUTTO IL RESTO DEL MONDO

 Tutto il resto del mondo non è compreso in questa immagine. La verità è che per moltissimo tempo ho pensato che fosse bello rimanere qui, in un luogo vuoto, amichevole, poetico, privo di tinte forti, leggermente sfumato come in in fondo è giusto che siano i sogni. Ma la vita che passa mi chiama, il chiasso, le emozioni, le figure umane e i piaceri e i dolori e la bellezza e la felicità sono poco lontani. Pesanti, è vero, meno maneggevoli dei sogni , ma degni di un tentativo. Quindi ora è tempo di andare a raccogliere tutto quello che manca, portarmelo dietro, con il buio e i colori, le stagioni e ansie, portarmelo dietro e aggiungerlo, pezzo dopo pezzo, alla foto. Per completarla, per creare il mio mondo, imperfetto ma autentico.

LA COSTA DELLA JUGOSLAVIA

 “Guardate” – disse l’agente immobiliare a mio padre e mia padre, indicando il finestrone che si apriva sul terrazzo della nostra nuova casa e, poco più in là, oltre lo strapiombo,  sulla distesa del mare – “pensate che in certe giornate molto limpide si può vedere la costa della Jugoslavia !!” .

I miei erano già convinti, non solo per la posizione panoramica dell’appartamento, ma per me, bambino, che assistevo un po’ defilato e molto triste (perché questa storia del trasferimento da Roma ad Ancona non mi era ancora andata giù), l’idea di poter vedere la costa Jugoslava dalla finestra rappresentava un ideale magico e sconosciuto sul quale poter gettare uno sguardo. Così finii per insistere anch’io, e la casa fu presa.

E cominciarono a passare le mattine, quelle nebbiose, quelle nevose, quelle di pioggia, di sole e di vento, poi quelle radiose di piena estate, senza una sola nube nel cielo azzurro, e io non mancavo mai di dedicare almeno qualche minuto all’osservazione (a volte spasmodica) dell’orizzonte. Ma della costa della Jugoslavia niente, mai, nemmeno l’ombra..nemmeno una vaga sensazione.

 Poi arrivò la mattina del nuovo trasferimento. Intanto erano passati undici anni e io non ero più un bambino. Però un ultimo tentativo lo feci. Guardai, ancora, a lungo. Poi buttai la sigaretta di sotto e dissi : “ma vaffanculo, va, te e la costa della Jugoslavia!!” e me ne andai.

 Circa una diecina di anni dopo mi capitò di trascorrere un lungo periodo proprio in Jugoslavia, per varie ragioni, e - dati i prezzi bassissimi – decisi di prendere in affitto una casetta, sulla costa, dalle parti di Zara.Nel mostrarmi  il terrazzo il padrone di casa mi disse : “Guardi, non ci crederà, ma in certe mattine limpide come questa,  si può vedere abbastanza bene la costa Italiana, e soprattutto Ancona !!”

Ebbi un tuffo al cuore e puntai gli occhi a terra, per resistere. Poi guardai. Era vero, si vedeva, un po’ sfuocata, sì.  Ma si vedeva, eccome.

NELLA NOSTRA VECCHIA CASA

 Non vedo più niente che mi ricordi il passato e tutti quegli anni ad aprire e chiudere porte.
C'è solo, quasi a mezz'aria, come l'impressione di uno sguardo che mi segue, che cerca ancora di accompagnarmi da qualche parte, lì, di fuori.
Ma lentamente, come un vapore di acqua calda, l'impressione scompare, si allontana. Sento che quegli occhi se ne vanno e, forse, mi precedono, da qualche parte. Chiudo le porte. Non le aprirò più. Per ora.

I TRENI DEL VENERDI’ SERA

 Ciao,

fa uno strano effetto rivederti praticamente in transito, riproducendo cioè, in tempo reale, il modo in cui da tanti anni attraversi i miei pensieri. Mi chiedo cosa posso gettarti, cosa posso mettere di mio in questa cornice già pronta a partire, già sul punto di diventare solo un ulteriore, mezzo-ricordo…Mi chiedo come posso spiare dietro il sorriso ovvio che ci scambiamo…

Potrei dirti che nonostante le molte opzioni non tutto è andato proprio come speravo nella mia vita, ma il “poteva andare peggio” non lo voglio dire e pretendo mi sia risparmiato. Per fortuna tu la pensi come me, lo capisco dal sollievo con cui appena il treno riparte sventoli  la Gazzetta dello Sport come saluto. Poi chiudi il finestrino.


IN EFFETTI NON C’ERA NIENT’ALTRO DA DIRE

 In effetti non c'era nient'altro da dire. Così, mentre lei preparava la valigia, io uscii un'ultima volta sulla terrazza dell'albergo.
C'era il sole ma faceva freddo. Per via di un riflesso non riuscivo a tenere gli occhi aperti. Poi compresi : il "nostro" mondo si stava assottigliando, riducendo. Il mondo intero si stava assottigliando.
Per noi non c'era più posto. Nemmeno per la valigia.

DESSERT

 Al mio volo mancano ancora molte ore, ma ormai ho terminato di preparare tutto e ho fretta di sentirmi in movimento. Prenoto il taxi per telefono e, visto che non ho cenato, scendo e mi infilo nel Coffee Shop sotto casa. Mi siedo e guardo il menù scritto sulla lavagna appesa al muro : decido per un’insalata di pollo. Al tavolo accanto al mio viene a sedersi un signore vestito di scuro. Ha i capelli bianchi, ma non è anziano, lo si direbbe uno importante, non so perché. Ma comunque in questo posto non ti aspetteresti mai di vedere uno come lui. Si passa spesso la mano sulla fronte. E’ come se una dose di stanchezza gli aleggi intorno al corpo, come aria calda.  Ordina qualcosa con aria distratta e tono molto sgarbato. Mentre parla stringe le sopracciglia. Tira fuori il giornale e lo sfoglia a lungo. Quando il cameriere porta il piatto che ha ordinato ripiega in fretta il giornale e si mette a mangiare freneticamente. Mi sembra che sia più l’urgenza di finire, di sbrigare la pratica, che non la fame. Mangiando tiene il tovagliolo premuto contro il petto e fissa il cibo.Appena finito allontana bruscamente il piatto, poi prende il bicchierone di acqua gelata e lo scola tutto di un fiato. Dopo rimane immobile,  come assente. Noto che una leggera traccia di unto gli è rimasta sul mento. Sembra che la sua tensione si sia esaurita nel mangiare, e che solo quella specie di sensazione calda e sgradevole che emana  sia rimasta al suo posto. Il cameriere torna a chiedere se per caso desidera un dessert. Lui lo guarda a lungo, si guarda le mani. Poi sorride e chiede, mimandone la forma con le mani, e indicandone il nome sulla lavagna, una particolare coppa al cioccolato. Mentre il cameriere gli posa davanti il dolce, lui lo prende per una manica e dice qualcosa, mostrandogli il portafoglio al centro del quale, in mezzo alle varie carte di credito, spicca una piccola foto in bianco e nero. il cameriere  annuisce educatamente e pronuncia qualche parola con tono grave, poi si allontana, cercando di darsi un contegno. E’ molto giovane. Io mi alzo infilandomi la giacca. Ormai ho pagato e avuto il resto. Ma prima di uscire do un’ultima occhiata a quel signore che mangia con lentezza il suo dolce. Sta curvo sul tavolo e guarda sempre la foto in mezzo al portafoglio, come se stesse leggendo un libro.


LA NOSTRA PASSEGGIATA, AMORE MIO

 Sarà l’alba o il tramonto, il giorno, la pioggia, le neve, le stelle, gli animali nascosti, il suono della pioggia, le nuvole, le ombre, il tintinnare di campanelli invisibili, il battere delle ciglia, lo strizzare degli occhi all’irruzione della luce, il tepore alla testa, il frusciare dell’erba calpestata, i colori il nero, il BLU, il ROSSO , il GIALLO forse, sarà il lieve sudore sul palmo delle mani, saranno carezze, o gesti microscopici, sorrisi o lacrime, sarà un microscopico fischiettare tra i denti, una risata, un silenzio

LA NOSTRA PASSEGGIATA, AMORE MIO, SARA’ UN’INCREDIBILE

OPERA D’ARTE

 IL VIAGGIO DI RITORNO

Me li ricordo tutti, i nomi, le fisionomie, il modo che avevano di sorridere oppure di stare seri. Mi ricordo di tutti anche se sono passati quasi 50 anni e non ho più visto nessuno di loro. Ma se devo far tornare in superficie un’immagine netta pulita e definita, ecco che mi viene in mente quel giorno che eravamo in gita scolastica in un grande giardino botanico del nord. A un certo punto tutti stavano fermi affacciati ad un parapetto sotto il quale scorreva lentamente una cascata che si perdeva tra siepi e sentieri. Il sole stava tramontando, quasi non si vedeva più nel dirupo. Mi accorsi che le ultime tracce di luce indugiavano sulle schiene dei ragazzi, e mi allontanai, indietreggiando, per scattare una foto. Poi dissi a voce alta : “Ragazzi, muoviamoci che è tardi e il pulmann fra un po’ parte !”

Tutti si girarono e, in gran silenzio, senza guardarci negli occhi, cominciammo a camminare verso il parcheggio dove il pulmann si aspettava.

Il viaggio di ritorno era iniziato. Non è più finito.

ENGLISH VERSION

SOMEONE BELIEVED

 Someone had seriously believed that it was possible. So they lined up, climbed onto the seats, the car took off and they began to kick forward, to project themselves towards the sky and finally get off this earth and its tremendous weight of gravity. But from the very first jumps, as they bounced back to be reloaded like springs, they realized that with each movement, with each click, a piece of sky detached. Pieces of clouds and horizons crumbled like shreds of plaster in free fall. And at one point they never came back. They stayed there, in that sort of leap they had believed in. Still like the image of a circus on the wall.

THE SERMON OF THE FLOWER

He stopped by the florist and, despite having only a little money in his pocket, he bought her a bunch of beautiful red roses. She thanked him with a smile, but then threw most of the deck into a wastebasket, keeping only one. She handed it to him and told him the story of Buddha's Flower Sermon:

“One day Buddha was awaited by a large crowd gathered to hear one of his wonderful discourses. He finally arrived. He took his place in front of the eager crowd. All these men, all those women, in short, the multitude, was like an anxious breath rising to him. It was a silence full of breaths, where even the animals and the trees breathed their anticipation. Buddha then gave his discourse : he said it without opening his mouth. He held out a flower to the crowd. Nothing else. He held up the flower and did not speak. And not only the most devoted disciples (including Mahakassyapa, who later received the flower as a gift) but all the women, all the men, all the animals, all the plants, all understood the Flower's discourse; every living being understood him in his own way, as his mind and heart prompted him. Perhaps the flower speech or sermon sums up the essence of Buddha's life and Buddhism."

He too smiled. The rose was kept. He placed it in a glass vase on the kitchen table. Time passed and the rose never faded. Meanwhile, however, she had disappeared. He waited, waited a long time, until one day he took the rose (which was always very red), opened the window and threw it downstairs. And he did all this always smiling, certain that he had finally fully understood the Sermon on the Flower.

 THE TRUTH, PLEASE, ABOUT LOVE

 More than thirty years have passed. Since my lunch break was short, and I didn't feel like talking to anyone, I got into the habit of going to the park.

There was a bench there, very old, all of a peeling green. It was also wobbly.

I liked sitting there and eating my sandwich there in peace. One day I realized that on the backrest, among the hundreds of almost illegible pierced hearts and initials and drawings of various kinds, there was a longer writing. It said: “I have finished reading the poems of W.H. Auden !!! Fantastic !!! Go buy them now.. You don't know what you're missing!! Marco I love you!!!"

That same evening I went to buy the book, which I have read, reread endlessly, and always kept with me.

And, for the time I stayed in that city, doing that job, I continued to spend my lunch breaks on the bench, to feel in the company of the unknown woman who loved this Marco.

A few years later, following a completely different life, I happened to pass by those parts and I felt like seeing the bench again.

It was still there. But they had restructured it, covered in a matte white plasticized paint. Carefully screwed back together with new iron elements and nailed to the ground.

Obviously there was no longer any writing, no declaration of love, no truth to pursue.

A premonition came over me.

When I got home I began to frantically search for my copy of that book. I've been looking for it ever since. I haven't found it anymore.

WHERE IS YOUR HOME?

 On the day of the removal, the sky was gray, it was cold, and there was heavy sleet.

The trees around the house we left were covered in a fine dust of ice. The whole garden shone, but as a silvery white that faded only to retreat into distant corners, beyond the silhouette of the house.

Then the truck finished loading everything and we left.

So the years began to pass, and so many years passed.

Then, not long ago, I happened to exchange a few words with an old lady who was sitting next to me on the train and was reading "Lo Straniero" by Camus.

She told me she didn't recognize my accent "Where is he from? - she asked me - Where is your home?"

I replied with a smile that I had changed many houses, many cities, but that in the end I didn't know where my real home was. Or maybe yes. But there – I added – everything was cold, frozen, white, a little bad…

“How old you were when left there?”

“eighteen" I replied.

 The lady thought about it for a while, looked me straight in the eyes, then said: "No, my friend. If that is truly THE HOME, YOUR home, try to go back now, and you'll understand right away.” - “And how will I understand it?” - “The colors. Around our real home, when the right time has come for us to meet again, there is always the sign of spring. You will see!”

So I went back, it was still winter. I walked for a long time in the garden. It took me a while to find it but I finally saw it. It was small, very colorful, and the house could be seen perfectly behind it.

THE HAPPIEST WOMAN IN THE WORLD

When the phone began to ring she stopped, suddenly, still, straight and rigid, there in the spot in the square where, for two hours already, she had been turning and turning back and forth without end, as if she were digging a furrow in the asphalt. and his features - devoured by anxiety and fear - relaxed into a big smile. A smile that crossed her whole body, that surrounded her, took her away from herself, to stay even closer to herself.

She wrapped his arms around her body, to wrap herself in a sort of self-hug.

The blasts kept repeating, almost exploding, filling her whole body, resounding inside her, like the passage of a low-flying airplane can do, which with its noise overwhelms things and stops the movement of the world.

But she was happy, she held tight. Her whole life was now in that embrace she allowed herself.

She was happy. She was the happiest woman in the world. So happy that it didn't even occur to her to answer the phone, which kept ringing for a long time. Then it stopped.
 

THE RELIGIOUS MAN

He met the girl every day, around 6. He left the office and as he crossed the square, he saw her emerge from the church door and take the front porch very quickly. Then it was gone, in seconds, but from what little he could see, it looked beautiful. So he decided to get to know her and managed to go out a little early to find her in front of him. But that day the girl did not appear. At one point, overwhelmed by curiosity, he entered the church and, despite the size of the place, he immediately saw her, on the right, kneeling at a confessional.

He waited. Meanwhile he looked at the inside of the place, immense, wrapped in a darkness that from the ground, rising in mid-air to then grow following the dizzying height of the naves, brought to the ceiling progressively darker, more oppressive, more melting and impenetrable to the eye. He felt the need to loosen the knot in his tie. He was sweating. The air seemed unbreathable to him. The confession still lasted. "It lasts an eternity..." he thought.. You couldn't see anything anymore. All heavy, all dark. The only light came from dim candles lit under an enormous painting of which, however, he could not distinguish anything. These words that he had read so long ago came to mind:

 “During that time some happy disciples among the listeners saw the sky filled with gods who listened to the words of the Master. Many others had the intuition that Heaven and Earth were filled with Gods and men who listened to the Doctrine. In full view, a rainbow tent appeared in a clear sky. Innumerable instruments of sacrifice, parasols, and banners in five-colored clouds filled the sky. A rain of five colors was falling”.

The girl was still there, on her knees, confessing. He decided to go out. "Enough," he thought, too. In front of the church, under the brightly lit portico, there was a crowd of very colorful people who walked and talked and made noise.

“This is NOTHING” – he thought – “and it is LIFE, mine, all mine, and it is not heavy, black. He doesn't squeeze, he doesn't close his eyes, he looks at the colours. Because there is no sin.” He had never felt so religious. So close to God.


THE DEFENDER’S GESTURE

 At five o'clock he went straight home. But inside the house he started walking, from the living room to the kitchen, to stop only a few moments at the window. He paced the corridor back and forth. He realized that he hadn't even turned on the lights, and the grayish hue that enveloped the house reminded him of certain childhood afternoons when he finished playing and had to do his homework. Pacing back and forth he was tempted two or three times to put on his coat. He also looked at the phone, constantly, in case it didn't flash. In the end he felt pain in his legs and threw himself on the armchair in the hall. He turned on the TV. They were having a football match. It was the match his colleagues had been talking about all day, exchanging excited comments and predictions, whispering, in effect, so as not to offend him with their gaiety. He watched, wondering how long it had been since he'd seen a game.

"Unnatural" that there was color, he thought, as if time had stopped even in that object, and it seemed strange to him not to see everything in black and white, as everything else was for him today.

He watched trying to figure out who was playing.

The prevalence of the yellow jersey team was evident. In a few minutes they had come close to scoring 3-4 times and only the sensational saves of the opposing goalkeeper had prevented them from doing so. He realized that he was looking carefully at that goalkeeper. He was tall and thin, dressed in black, with a peaked cap. He had a sad face. With each parade he made, leaping from one side of the door to the other, he got up with a slightly sadder expression. Then came the unstoppable shot, from a distance. The goalkeeper fell down and remained on the ground for a few seconds, with his head in his hands, without looking at the ball in the net. When he stood up he walked slowly towards the pole to his right, spreading his arms. As if to apologize to himself.

A LETTER TO MYSELF

I have often thought that everything is "packaged inside me", as if to say: at any moment I go, I come back, I arrive, I move, I define, I freeze, I go back, I advance, I establish, maybe I go back where I came from and finally I open all these packages to see what's inside. To see who I am now.

Or maybe I like to delude myself, because I remember a Christmas day a long time ago. I was in New York, and I wrote a letter to myself (who knows why…) on Chemical Bank letterhead, and then I closed the envelope and wrote on it: “not to be opened, for any reason”. And in fact it is still there, and I never opened it again. I don't remember anything I wrote. But that's okay: it's packed inside me. It is a kind of crossroads, where – if I ever open it – I could find myself in front of another myself.

And this is because our freedom (the only one, if you think about it) lies precisely in the possibility that we must feel practicable for life, to be "someone else" because, deep down, there is no certainty, not even knowing who we really are.

Unless we open that letter to ourselves that we all - in one way or another - wrote, who knows when, to then hide it, who knows where.

THE MUSIC IN THE EMPTY HOUSE

 A few days later they came to empty the house.

The one in the blue overalls - who was driving the truck and was supposed to be the boss - took the stuff from the sidewalk, from where the others put it, and placed it on the truck.

The strongest of the men was the bald one, a tall, enormous fellow who wore a gray apron and sweated profusely and never spoke. Or rather: he spoke with quick glances without a smile and with the gestures he repeated continuously to get the sweat off his brow. Alone he brought down the fridge, the dining room table and the sofa.

The two boys, on the other hand, passed around the armchairs and drawers, giggling. They had only recently been doing that job. Summer things, for students. Only when they had emptied the children's room were they silent for a while, then they thought they had nothing to do with it and started talking again.

At noon they ate a sandwich with mortadella leaning against the red plastic box they had brought down as it was, full of toys and puppets.

The fattest boy opened a can of beer and splashed all over the toys and the boss shouted at him : “Be careful, idiot!! “. He thought it was a matter of respect more than anything else. Even the bald man shook his head and a trickle of sweat ran down his neck, up to his apron. By now the truck was full.

They all sat inside, with some relief, but the boss said he'd better do one last check and sent the bald man up. As he climbed the stairs, the bald man heard noises, indeed sounds, coming from the empty house.

It was cheerful music, very rhythmic. He wiped the sweat with his sleeve and began to walk around the rooms, following the song that was echoing everywhere. In the end he found it, on the floor, in a corner of the dining room behind the column: a little black radio turned on by who knows who and forgotten.

The bald man instinctively took a step forward to go and turn it off, then stopped. He ran his sleeve over his damp face several times, staring at the floor, then turned and walked out.

But before leaving, he closed the door to the room.

THE WALL

 Everything is an appearance. He and she sit in two different rooms, thousands of kilometers apart and the wall that divides them, made of time and distance and indifference, they were the ones who built it. Then one evening, for no particular reason, each of the two begins to write a letter to the other who, of course, is unaware of it. But as they write, they both have the impression that there is someone they know on the other side of the wall, and it seems to both of them that they smell an ancient but familiar perfume. Thus, thousands of kilometers apart, they continue to write with the feeling that the other can respond at any moment. And also that the wall is slowly but noticeably thinning.

THE WOMAN WHO WAS WAITING FOR LOVE

The woman who was waiting for love could no longer talk to anyone. And she began to talk to herself.

When he had gotten all the answers he was looking for, he finally got up from the table. The sun was shining all around. She had become a shadow.

ALL THE REST OF THE WORLD

Everything else in the world is not included in this picture. The truth is that for a very long time I thought it would be nice to stay here, in an empty, friendly, poetic place, devoid of strong colors, slightly nuanced, as deep down dreams should be. But the passing life calls me, the noise, the emotions, the human figures and the pleasures and pains and beauty and happiness are not far away. Heavy, it's true, less manageable than dreams, but worthy of a try. So now it's time to go and collect everything that's missing, take it with me, with the dark and the colors, the seasons and anxieties, take it with me and add it, piece by piece, to the photo. To complete it, to create my world, imperfect but authentic.

THE COAST OF YUGOSLAVIA

 "Look" - said the estate agent to my father and my mother, pointing to the large window that opened onto the terrace of our new house and, a little further on, beyond the precipice, onto the expanse of the sea - "do you think that on certain days very clear you can see the coast of Yugoslavia!!” .

My parents were already convinced, not only for the panoramic position of the apartment, but for me, a child, who watched a little from the background and very sad (because this story of the transfer from Rome to Ancona hadn't gone down on me yet), l he idea of ​​being able to see the Yugoslav coast from the window represented a magical and unknown ideal on which to cast a glance. So I ended up insisting too, and the house was taken.

And the mornings began to pass, the misty ones, the snowy ones, those of rain, sun and wind, then the radiant ones of midsummer, without a single cloud in the blue sky, and I never failed to devote at least a few minutes to the observation (sometimes spasmodic) of the horizon. But of the coast of Yugoslavia nothing, ever, not even the shadow .. not even a vague sensation. Then came the morning of the new transfer. Meanwhile, eleven years had passed and I was no longer a child. But I made one last attempt. I looked again for a long time. Then I threw the cigarette downstairs and said: "fuck you, go, you and the coast of Yugoslavia!!" and I left.

 About ten years later I happened to spend a long time in Yugoslavia, for various reasons, and - given the very low prices - I decided to rent a small house on the coast, near Zara. When showing me the terrace, the landlord said to me: "Look, you won't believe it, but on certain clear mornings like this, you can see the Italian coast quite well, and above all Ancona!!" My heart sank and I fixed my eyes on the ground, to resist. Then I looked.

It was true, you could see it, a little out of focus, yes. But it showed, yes.

IN OUR OLD HOUSE

 I no longer see anything that reminds me of the past and all those years of opening and closing doors.

It's just there, almost in mid-air, like the impression of a gaze following me, still trying to take me somewhere, there, outside.

But slowly, like a steam of hot water, the impression disappears, fades away. I feel those eyes go away and perhaps precede me somewhere. I close the doors. I won't open them again. At the moment.

FRIDAY NIGHT TRAIN

Hi,

what a strange effect seeing you practically in transit, i.e. reproducing, in real time, the way you have been crossing my thoughts for so many years.

I wonder what I can throw at you, what can I put of my own in this ready-made frame starting, already on the verge of becoming just another half-memory…

I wonder how I can peek behind the obvious smile we share…I could tell you that despite the many options not everything went as I hoped in my life, but I don't want to say "it could have been worse" and I expect it to be spared.

Luckily you think like me, I understand it from the relief with which as soon as the train leaves you wave the Sports Gazette as a greeting, and then close the window.

THERE WAS NOTHING ELSE TO SAY

 In fact there was nothing else to say. So, while she was packing her suitcase, I went out one last time onto the hotel terrace.

It was sunny but it was cold. Because of a reflex, I couldn't keep my eyes open. Then I understood: "our" world was getting thinner, smaller. The whole world was getting thinner.

There was no more room for us. Not even for the suitcase.

 DESSERT

 My flight is still many hours away, but by now I've finished preparing everything and I'm in a hurry to feel on the move. I book the taxi by phone and, since I haven't had dinner, I get off and go to the Coffee Shop near the house. I sit down and look at the menu written on the blackboard hanging on the wall: I decide on a chicken salad.

At the table next to mine a gentleman dressed in dark comes and sits down. He has white hair, but he's not old, one would think he's important, I don't know why. But still in this place you would never expect to see someone like him. He often passes his hand over his forehead. It is as if a dose of tiredness is hovering around his body, like warm air. Order something with a distracted air and a very rude tone. As he speaks he tightens his eyebrows. He takes out the newspaper and leafs through it for a long time. When the waiter brings the dish he has ordered, he hastily folds up the newspaper and starts eating frantically. it seems to me that it is more the urgency to finish, to complete the procedure, than hunger. As he eats he holds the napkin pressed against his chest and stares at the food. As soon as he's finished he abruptly pushes away the plate, then takes the glass of ice cold water and drains it all in one gulp. Afterwards it remains motionless, as if absent. I notice that a slight trace of grease has remained on his chin. It seems that his tension has been exhausted in eating, and that only the kind of warm and unpleasant sensation that emanates has remained in place. The waiter returns to ask if perhaps he would like a dessert. He looks at him for a long time, looks at his hands. Then he smiles and asks, miming its shape with his hands, and indicating its name on the blackboard, for a particular chocolate sundae. As the waiter puts the dessert in front of him, he takes him by the sleeve and says something, showing him his wallet in the center of which, among the various credit cards, stands out a small black and white photo

The waiter nods politely and pronounces a few words gravely, then walks away, trying to compose himself. He's very young.

I get up putting on my jacket. By now I have paid and received the change. But before leaving, I take a last look at that gentleman who is slowly eating his dessert.

He is hunched over the table and always looks at the photo in the middle of his wallet, as if he were reading a

OUR WALK, MY LOVE

 It will be sunrise or sunset, day, rain, snow, stars, hidden animals, the sound of rain, clouds, shadows, the tinkling of invisible bells, the blinking of the eyelashes, the squinting of the eyes at the irruption of light, the warmth of the head, the rustling of the trampled grass, the colors black, BLUE, RED, YELLOW perhaps, it will be the slight sweat on the palms of the hands, they will be caresses, or microscopic gestures, smiles or tears, it will be a microscopic whistling between the teeth, a laugh, a silence

OUR WALK, MY LOVE, WILL BE A FANTASTIC ARTWORK.

THE RETURN TRIP

 I remember them all, their names, their faces, the way they smiled or were serious. I remember all of them even though it's been almost 50 years and I haven't seen any of them since. But if I have to bring to the surface a clean and defined clear image, here I am reminded of that day we were on a school trip to a large botanical garden in the north. At one point everyone stood still facing a parapet under which a waterfall slowly flowed and was lost among hedges and paths. The sun was setting, almost out of sight on the cliff. I realized that the last traces of light lingered on the boys' backs, and I walked away, backing away, to take a photo. Then I said aloud: "Guys, let's hurry up, it's late and the bus will leave soon!"

Everyone turned around and, in complete silence, without meeting each other's eyes, we started walking towards the parking lot where the coach was waiting.

The return trip had begun. It's not finished yet.